La storia ce lo insegna: non esiste oggettività in quanto a giusto o sbagliato, bello o brutto. È tutto relativo al luogo, al tempo e alla cultura dentro cui si alimentano tali riferimenti. Ciò che è stato giusto in un periodo storico non è lo stato in un altro, ciò che è considerato bello in un determinato punto geografico è considerato brutto in un altro. Niente sfugge alla versatilità delle nostre emozioni, dei nostri pensieri e dei nostri ideali, fortemente e regolarmente instabili sui fili tesi di spazio, tempo e cultura.

Le infinite sfumature e dinamiche di questo processo avvicinano il concetto di verità più alla sua etimo latina (“veritas”, cioè “fede”) che a quella greca (“alètheia”, cioè “svelato”), per cui è vero ciò in cui si sceglie di credere e non quello che svela la ragione. Non esiste, dunque, verità oggettiva, ma differenti riferimenti che da sempre incidono sulle travagliate interazioni di ogni comunità, tra guerriglie e compromessi. Insomma, il detto “non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace” è più che mai opportuno, a chiosa di questa riflessione.

Affermare tale soggettività, riferendosi a arte e talento, innesca inevitabilmente una serie infinita di dibattiti (ai quali più di una volta mi sono concesso) che in effetti ne confermano la natura, avendo ognuno riferimenti diversi, e aprendo così scenari e spunti di notevole interesse, specie se ci si confronta su tempi e motivi per cui un talento viene riconosciuto.

È comune convinzione che sia il mercato a determinare il valore intrinseco di un artista e a misurarne il talento. Non è importante quale sia il suo reale potenziale, ma solo quello che il consenso effettivamente gli riconosce.

Appare quasi superfluo supportare la relatività di questa convinzione, considerato che il mercato premia i suoi eletti attraverso riferimenti del tutto soggettivi, instabili e in continuo mutamento, di epoca in epoca. L’idea che chi non raggiunge un largo consenso non sia meritevole di successo, non ha alcun peso in quest’ottica. Difatti, più che l’indice imprescindibile di un indiscusso talento, il consenso è una tendenza, un riconoscimento soggettivo che può mutare nel tempo.

Naturalmente a un largo consenso può corrispondere qualità di proposta, ma non esistono abbecedari universali che annotano criteri universali di giudizio, poiché anche il concetto di talento non prescinde dai riferimenti di una verità soggettiva: quello che emoziona me non emoziona te e viceversa, secondo le affascinanti dinamiche della nostra complessità emotiva.

Questa riflessione appare più che mai opportuna e confortante, perché troppo spesso l’autostima vacilla sotto il peso inesorabile di mille rifiuti o della bocciatura di professionisti del giudizio, ovverosia i critici di settore. Ma neppure la padronanza della sintassi di un linguaggio può stabilire con assoluta certezza il livello tecnico ed emozionale di un’opera d’arte, oserei dire di null’altro.

La storia, soprattutto quella della musica, è piena di esempi di rifiuti improbabili o consensi fin troppi generosi, rendendo evidente come non siano tali criteri a riconoscere realmente e incondizionatamente il potenziale di una proposta artistica.


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