Il buio che annerì il giorno fu più scuro della notte, della più nera che si ricordi sull’isola di Sumbawa, nell’arcipelago indonesiano. Era l’aprile del 1815. I boati che prima esplosero nel cielo di Giava sembrarono tuoni e cannonate, così minacciosi da mettere in stato d’allerta perfino le truppe britanniche accampate lì per la campagna contro gli olandesi, così forti che si sentirono fino a quasi mille miglia geografiche, diciamo fino a Sumatra. Dopo le spaventose esplosioni, circa due milioni di tonnellate di detriti e particelle di zolfo vennero catapultate negli strati più alti dell’atmosfera, oscurando a lungo il cielo dell’intera Indonesia.

Fu il Tambora a eruttare. La più spaventosa eruzione della storia umana. Per quattro mesi, da aprile a luglio, l’enorme vulcano non smise la sua attività distruttiva, facendo registrare il più alto livello di esplosività vulcanica mai registrato. Mille e trecento metri di montagna vennero spazzati via, così come uomini, animali e alberi vennero scaraventati per aria da turbini violenti. Flussi di lava, gas velenosi e onde gigantesche distrussero ogni cosa intorno, le ceneri si depositarono per due metri di spessore per diversi chilometri, avvelenando il terreno per anni e a migliaia morirono.

Dall’altra parte del mondo, in America e in Europa ancora nessuno poteva sapere che di lì a poco l’evento catastrofico avrebbe raggiunto anche i loro cieli, influenzando i fattori climatici di tutto il mondo per molto tempo. L’anno senza estate. Così verrà chiamato il 1816.

Al momento la scienza dell’epoca non riuscì a spiegarsi le improvvise variazioni di temperatura di quell’anno, le grandi tempeste, le piogge anomale e le inondazioni dei maggiori fiumi europei, Reno compreso. Ghiaccio e neve imbiancarono gran parte dell’emisfero settentrionale, anche alle latitudini più calde. Insomma, l’intero pianeta si trovò ad affrontare un caos climatico dalle conseguenze disastrose, una piccola era glaciale.

L’enorme quantitativo di cenere e polvere vomitata dal Tambora mesi prima nell’atmosfera, infatti, produsse un velo così denso e così opaco che le radiazioni solari ridussero la loro azione sulla superficie terrestre, tanto che gran parte dei raccolti andarono distrutti, i capi di bestiame vennero decimati e vaste aree del pianeta subirono un importante impoverimento. Presto fame, carestie ed epidemie si diffusero in tutto il mondo, provocando vittime su vittime. A morire furono circa ottantamila persone, tra l’eruzione del vulcano indonesiano e le sue dirette conseguenze a distanza di tempo e chilometri, durante quella che è stata definita come “l’ultima grande crisi di sopravvivenza nel mondo occidentale”.

Tuttavia, sebbene il dolore e la sofferenza di quei mesi abbiano solcato la storia in modo più netto e profondo, l’anno senza estate fu anche un tempo di ispirazione per alcuni, persone che nella difficoltà si elevarono per cercare di sopravvivere.

Karl Drais inventò il velocipede, che poi diventò la bicicletta, come mezzo di trasporto alternativo ai cavalli, vista la carenza di foraggio. Mary Shelley e John Polidori, costretti al chiuso da un’estate svizzera alterata dal freddo e dalla neve, scrissero due capolavori della letteratura gotica, “Frankenstein” e “Il vampiro”, cercando distrazione e conforto nella sfida a chi avrebbe scritto la storia più spaventosa. William Turner dipinse i suoi celebri tramonti, resi spettacolari dagli alti livelli di cenere nell’atmosfera.

Ci trovo una bellezza quasi commuovente, in questo tentativo. L’arte e l’ingegno come speranza.


Leave a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.