Considerati l’etimologia e la loro azione totalmente incondizionata, le parole “empatia” [dal greco “en” (dentro) e “pathos” (passione): “sentire dentro”] e “compassione” [dal latino “cum” (con) e “patior” (sentire): “sentire con”] sembrano avere lo stesso lungo e persistente sapore in bocca, sebbene la natura diversa del loro significato.
Se l’empatia, infatti, è la vera strada da seguire per generare amore, sentendo dentro e capendo gli altri senza condizione alcuna (leggi “Essere empatici è la vera condizione per amare”), la compassione è l’indispensabile mezzo per percorrerla.
Distante dall’accezione di “pietà” come disprezzo, compatire si traduce infatti nell’aspirazione che la sofferenza degli altri non duri o che la gioia altrui perduri. Le due parole, dunque, si completano l’un l’altra, perché non può esistere compassione senza empatia: essere compassionevoli è dare un senso e una direzione all’essere empatici, è la volontà di compimento che esiste tra l’empatia e l’amore.