Testimone di oltre 1700 anni di storia, tra le colline abruzzesi di Fossacesia che vegliano sull’Adriatico e i filari d’ulivo che ne contemplano l’orizzonte, una pianta meravigliosa ha attraversato il tempo con fierezza, custodendo caparbia l’unicità dei suoi frutti e del suo destino. Un ulivo maestoso, irregolare come una scultura sofferta e segnata dai secoli, a lungo vedetta dell’Abbazia di San Giovanni in Venere, lì dove è nato.

Dichiarato dallo Stato italiano monumento nazionale nel 1871, citato dal D’Annunzio nel quarto libro delle “Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi” del 1912, il grande ulivo è stato l’unico silenzioso spettatore sopravvissuto a secoli di travagliati accadimenti dell’Abbazia, sorta sui ruderi di un tempio pagano dedicato a Venere Conciliatrice e tormentata lungo il cammino di epoche diverse — dopo i fiorenti momenti di potere religioso ed economico del Basso Medioevo  — da continui saccheggi, violente devastazioni e terremoti, fino alla quasi distruzione negli anni bui del secondo conflitto mondiale.

Vita e morte hanno orbitato attorno ai suoi rami, sole e pioggia li hanno benedetti chissà quante volte. Tuttavia il tempo non risparmia nessuno, neppure chi il tempo lo attraversa senza apparente sosta. Così i Passionisti, gli attuali custodi dell’Abbazia che l’hanno amorevolmente restaurata nel secondo dopoguerra, nel 2004 hanno tentato di salvare la maestosa pianta, ormai rinsecchita e annodata dal peso della storia, chiamando a raccolta una vera e propria equipe scientifica composta da agronomi, responsabili tecnico-arborei, vivaisti e perfino degli storici.

Quello che sembrava a tutti un albero stanco di giorni e ormai privo di vita, ha invece mostrato un germoglio verde ancora attivo sulla sommità dei suoi rami, dita artritiche di una mano ancora viva rivolta al cielo, in grado ancora di dare vita a cinque olive con caratteristiche sconosciute tra le 560 varietà censite. Una varietà unica, in pericolo di estinzione. Il passo pesante dei secoli non aveva dunque scoraggiato l’ulivo né aveva fermato la sua corsa, l’aveva solo rallentata.

Difficile sottrarsi alla meraviglia. Quando buio e morte sembrano prevalere su ogni cosa, la vita giunge sempre da tutt’altra lontananza, sorprende e vince, con lo scatto di reni di un velocista sul traguardo. Così, attaccato alla vita come le sue radici alla terra, il grande ulivo ha beffato il tempo e le sue regole, dando l’impressione di poterlo ingannare ancora a lungo e che solo un crimine avrebbe potuto spezzarne il caparbio tragitto nella storia. E purtroppo l’irreversibile è accaduto.

Il 18 febbraio 2014 è stata accertata la morte definitiva della pianta secolare, ormai dal 2008 orfana di germogli e frutti, perché, proprio in quel periodo, dei vandali hanno versato gasolio dalla balconata del belvedere dell’Abbazia, che arrivato alle radici dell’albero millenario l’ha ucciso. Uno scempio alla bellezza, come solo gli uomini sono in grado di compiere e per futili motivi.

L’ostinata corsa del grande ulivo lunga diciassette secoli è stata interrotta, ma non l’evoluzione della sua unicità. Cinque piantine infatti sono state piantate nella terra, così da recuperare e salvaguardare la varietà originale dell’albero, una delle quali proprio accanto al suo scheletro di legno. Una nuova vedetta, dunque. Della storia che prosegue. Della vita che passa.


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