Devo ammetterlo: ogni volta che vedo lo spot italiano contro la pirateria — non ruberesti mai un’auto, non ruberesti mai una borsa, non ruberesti mai un televisore — mi viene una voglia malsana di masterizzare musica e film su qualsiasi supporto, oltre all’irrefrenabile desiderio di rubare l’auto, la borsa e il televisore di chi lo spot lo ha concepito e confezionato, sebbene io sia un convinto sostenitore dell’originale (non ho niente di masterizzato) e un cittadino mediamente onesto (discutibile confessione, me ne rendo conto).
Non posso credere che l’ultimo baluardo alla masterizzazione sia una sorta di ambiguo terrorismo contro la possibilità di reato, paragonato oltre tutto al furto con scasso di beni altrui in modo così superficiale. Come artista e divulgatore, figura per la cui difesa credo sia stato prodotto questo scempio (anche questa affermazione è piuttosto discutibile, ma voglio credere che sia così), mi sento danneggiato più che tutelato.
Mettendo infatti sullo stesso piano la masterizzazione finalizzata al commercio illegale e malavitoso e la masterizzazione a uso privato, si genera la confusione di intenti e scopi di cui il nostro tempo è vittima. Non sono sicuro se, nel corso della storia, siano stati i furbi a creare le leggi o le leggi a creare i furbi, ma di certo con questa iniziativa, probabilmente fotografia dettagliata di una mentalità molto italiana, non si favorisce l’equilibrio necessario per risolvere il problema, se in effetti di problema si tratta.
Lo spot catalano contro la masterizzazione, visto quasi per caso in un DVD, ha sicuramente un quid in più e con ogni probabilità ha colto nel segno: “Se credi che la tua idea abbia un valore, perché pensi diversamente di quella altrui?”. Questo è il cuore del suo messaggio. Oltre ad avere toni meno “aggressivi” (musica compresa) centra certamente la questione, perché il problema non è la masterizzazione in senso stretto, io credo, ma il fatto che niente ormai ha più un valore e la conseguente convinzione che quello che posso avere gratis (terribile parola a cui dovremmo sostituire “gratuità”) mi appartenga di diritto.
Parlando da chi la musica prima di tutto la ascolta, pur faticando a comprare i supporti originali, non ho mai capito chi si lamenta del prezzo di un CD o un di DVD, come se esistesse in effetti un termine di paragone con cui rapportarsi. Cioè, in base a quale riferimento possiamo affermare che tali supporti sono troppo costosi? In base a eMule? Beh, se il riferimento è eMule allora lo sono per forza.
Ma se consideriamo l’ora di lavoro di un idraulico o di un meccanico, a cui paghiamo sempre materiale e mano d’opera, possiamo renderci conto di come, a conti fatti, il prezzo di un CD o un DVD sia più che altro una cifra forfettaria, visto che si paga quasi ed esclusivamente il materiale e mai la mano d’opera. Sarebbe impensabile, infatti, quantificare le ore di lavoro dietro alla fattura di un disco o di un film, per non parlare del valore artistico, certamente da mettere al vaglio di molti fattori, ma quasi mai preso in considerazione in affermazioni del genere.
Quindi non è per l’elevato costo degli originali che si masterizza e le altissime percentuali di chi non ha dato neanche un centesimo per scaricare opere di artisti più o meno blasonati proposte in rete a offerta libera ne sono un’ulteriore dimostrazione. Chi è convinto, inoltre, che la cosa possa fare differenza a seconda di chi sono gli artisti, i produttori e la casa discografica è vittima di una grande illusione.
Il punto della questione è che il problema del CD o del DVD non è che costa troppo, ma è che costa. In altre parole, siamo profondamente convinti che esistano delle cose a cui possiamo non dare un valore e che quindi ci spettano di diritto. Ma siamo noi stessi a confutare questo squilibrio, ogni volta che di fronte a un oggetto che desideriamo fortemente non badiamo a spese pur di possederla oppure, meglio ancora, quando ci battiamo per difendere il valore, intrinseco ed economico, di una nostra idea che altri non riconoscono.
Ecco dove lo spot italiano sbaglia e dove invece quello catalano centra il bersaglio: rubare è l’essere consapevoli di sottrarre a qualcuno un bene che non appartiene a me ma a un’altra persona, masterizzare come unico fine è l’essere convinti che l’arte sia intrinsecamente di mia proprietà perché non ne riconosco il valore.
È molto diverso, a pensarci bene, e molto più pericoloso. Anche perché, considerando la masterizzazione come una ricerca a largo raggio con lo scopo di scovare l’arte che la diversa sensibilità di ognuno sceglierà di valorizzare, non si può non affermare essere un palese e inconfutabile aiuto alla divulgazione artistica, soprattutto in questi anni di limbo, intontiti come siamo da una velocissima evoluzione tecnologica che sta annientando, di fatto, la distanza tra chi l’arte la crea e chi dell’arte usufruisce. È quando diventa unico fine della ricerca che diviene dannosa per tutti.
Quando qualcuno mi svela che ha masterizzato un mio CD, ponendomi per un attimo dalla parte di chi la musica la compone e la divulga, non è rabbia che provo, ma una strana mistura di gioia e dispiacere, per la grazia di essere arrivati alle orecchie di una persona nuova e per la disgrazia di non esserle piaciuto abbastanza da decidere di darmi un valore.
E allora: alimenta la musica che ami, se puoi non copiarla. Sempre e senza eccezioni. Perché amare una cosa significa darle valore e in questo modo la metti in circolo con forza. Sono fortemente convinto — non mi vergogno di apparire un sognatore: è quello che sono! — che se tutti facessimo così, non passerebbe molto tempo prima che qualità e genuinità diventino la spinta ai nostri scopi.